Sono passati diversi giorni da quando siamo in quarantena e il mio spirito non è ancora perfettamente quieto. L’ego scalcia, propone ad ogni istante la frenesia dell’occupazione, ed in queste manifestazioni immergersi totalmente nel flusso della vita che scorre o fare il deserto non è automatico né privo di lotta. Tutti, in questo momento, ciascuno secondo le proprie inclinazioni, sta cercando di occupare il proprio tempo nei modi più disparati: leggendo, suonando, cucinando, mangiando. Proporsi un’autoregolamentazione è cosa buona, dice molto della disciplina e del governo di se stessi, ma caricarsi di troppe cose da fare può orientarci verso una dispersione inutile delle energie e, peggio, alla frustrazione (anche lì, tutto alimento per l’ego, sempre più affamato). Mettere in campo risorse indispensabili come la propria unica e irripetibile creatività non solo è giusto, è addirittura indispensabile per attivare risorse superiori e non gettarsi nelle braccia della disperazione. E’ l’iper-attività che va tenuta sotto osservazione. Ho sentito molti dire che sono più occupati di prima, che non riescono a far tutto quello che si sono programmati di fare nell’arco dell’intera giornata. Alle 8 c’è la diretta Facebook “Consigli utili per sopravvivere al Coronavirus”, alle 9 il bollettino dei contagi, alle 10 la lezione di yoga, alle 12 un tutorial per cucinare presto e bene, alle 13 i consigli per le mamme sull’orlo di una crisi di nervi, alle 17 il report della giornata, alle 18 il flashmob, alle 19 gli amici da chiamare per aperitivo digitale. E poi, tutti a mandare video, audio e note vocali su cosa fare, peccato che nel 90% dei casi si tratta di fake news! Insomma, siamo bombardati da ogni parte, come succedeva anche prima, ma ora ce ne stiamo rendendo conto un po’ di più perchè siamo diversamente affaccendati. Alcuni riescono ad arginare questo flusso, altri si lasciano sopraffare. Bene, tutto ciò che stiamo esasperando nel fare ci rivela preziose opportunità sulle nostre inclinazioni al male, le perversioni, le paure, le indolenze, le abnegazioni e ci dice cosa il nostro ego, dannosamente, ha trasformato e imbruttito di noi. Nell’inquietudine percepita, però, c’è una traccia che possiamo cominciare a prendere in considerazione. E’ necessario pensarsi come fogli bianchi da direzionare verso il sole per far emergere in filigrana ciò che siamo davvero, intuire la scritta che appare sul foglio come un leggero calco può permetterci di guardare a noi stessi senza paura per ciò che siamo realmente, neutralizzando il giudizio e reinserendo l’indulgenza.
Ieri, a tarda sera, scambiavo qualche pensiero con un mio amico. Si diceva contento e sereno di vivere questi giorni a casa, assieme ai suoi figli piccoli. Anche io non gli ho nascosto la mia serenità dicendogli che ho molto da fare ma anima e spirito sono nati più per il non fare che per il fare. Siamo finiti a scambiarci figure di riferimento, testimoni di questo assunto e poi -immancabile- un libro: “La lentezza” di Kundera, che presto, spero, vorrò leggere (lo ringrazio per esser stato sollecito e avermelo mandato già stamattina in versione .pdf). In questo rapido scambio il mio amico ha intuito che nel mio dire non c’era una predilezione per la pigrizia e l’abbandono radicale dei propri doveri, anzi, l’esatto contrario.
Fino a pochi giorni fa vivevamo immersi in una giungla, e questa condizione resiste a lasciare il nostro ridimensionato e stravolto quotidiano, al punto da vergognarci nel confessare ad altri di fare o di aver fatto niente. «Cos’hai fatto, oggi?» La maggior parte risponde ancora in modalità “manager”. Il “niente” è censurato dai nostri dialoghi, non è ammesso. Tutti immersi in una fobia cosmica: del fare, del dimostrare ad altri che facciamo e che sappiamo fare, forse anche meglio e sicuramente più del nostro vicino-collega-compagno, insomma del nostro prossimo. Chi fa niente non sta buttando la vita, la sta riacquistando; chi si sta fermando, non sta perdendo, sta iniziando a gareggiare per vincere; chi sta facendo il vuoto, sta preparando il sopraggiungere di un pieno.
Mi ha colpito molto oggi il tweet di un ragazzo che scriveva così: «Io e la mamma del mio bimbo facciamo la spesa nello stesso posto. Non ci salutiamo e non ci parliamo da anni. Oggi davanti alla cassa mi dice: “Mi manchi tanto, mi manca la famiglia che eravamo. Io ti amo ancora, riproviamoci!” Tra le lacrime ci siamo abbracciati come non mai!»
Mi ha colpito perchè nel niente del fare è racchiuso il pensare. Quello intenso e profondo, alleato e non nemico del tempo che scorre. Pensare: “Prima che arrivasse la quarantena…”. C’è chi stava meditando di lasciare il lavoro tra mille tentazioni ed esitazioni, chi di lasciare il proprio compagno/a o chi l’ha fatto, chi stava programmando un viaggio a breve (ma quale viaggio, forse l’ennesima fuga?), c’era chi aspettava l’amore e chi stava giurando a se stesso che non si sarebbe mai più fidanzato, c’era chi stava interrompendo gli studi o chi era pronto per laurearsi, chi stava preparando un esame e chi un matrimonio; c’era chi stava sperando che quel periodo non finisse mai perchè era troppo bello e poi è arrivato lui, il virus!!!. Insomma, c’era un prima. Un prima che ci intratteneva, che ci stava saturando a colpi di sfide. Adesso non vediamo il dopo, ma possiamo -o dobbiamo sforzarci di- vedere come in un eterno presente il nel mentre.
Nel niente del nel mentre accadono piccole grandi cose. Perchè è una grande cosa una famiglia che si riunisce quando, nel sopraggiungere di un’emergenza, sposta il passato per far posto al presente e si mette ad inseguire lesto un nuovo inizio.
Nel mio fare niente sto osservando la mia vita, la sto suddividendo in piccoli pezzi, la sto guardando al microscopio; sto guardando gli eventi belli e quelli meno belli, sto pensando a persone che adesso se ne sono andate, alcune per loro decisione, altre per scelta mia. Sto contando tutti i passi, le cadute, le stanchezze, e sto guardandomi, bella e coraggiosa -più forte ed estremamente fragile-, mentre riemergo dal fango e dal fondo che mi aveva tirato giù. Sto rievocando volti e storie con i quali devo ancora fare pace, e affiorano da lontano nei ricordi persone alle quali ho fatto del male e nemmeno lo sapevo o non me ne ero accorta. Sto rivivendo tutti gli occhi che, senza dirmelo, mi hanno parlato, annunciato e insegnato l’amore, mi hanno convinto di amore, mi hanno invitato a praticarlo. A crederci ancora. A crederci sempre, nonostante tutto. Ripasso dalle mani piene di grasso d’officina di mio nonno, e da quelle piene di farina e lievito di mia nonna. Respiro profumo di pane appena sfornato, e ragù stratosferici. Rammento a me stessa tutto l’amore del mondo, invisibile ma in circolo. Tutte le volte che l’ho letto su un fiore, o in una mano, o l’ho incrociato per strada, o dentro il sorriso di uno sconosciuto. Metto insieme tutte le tessere, ciascuna è essenziale, al posto giusto. Faccio niente, ma sto facendo un puzzle unico al mondo, limited edition: la mia vita. E anche qui, anche oggi io attendo di fare una cosa nuova, di essere una cosa nuova, di lasciare che sia fatta di me e in me una cosa nuova. E’ possibile, lo credo.
A tutti quelli che non erano felici, che sentivano di meritare di più. A tutti quelli che hanno messo la felicità tra le cose da fare, non oggi ma domani. Fare niente, stare a casa. Per essere, domani, la versione migliore di se stessi. Dentro, e anche fuori. Succede sempre mentre facciamo altro. Di sentirci chiamati, di incontrare l’amore. Di voler fare quel salto in avanti che si rimandava da troppo tempo.
Testo di Elettra Ferrigno