Sembrerebbe quasi anacronistico commentare l’ultima fatica cinematografica di Paolo Sorrentino adesso, quando critici e opinionisti sono già tanto più in là e il mondo social ha smesso da un po’ di dare in pasto all’algoritmo le frasi e le immagini più impattanti del film. Il cinema è una macchina che va veloce e, mentre ci si proietta già verso i cinepanettoni, certe pellicole restano a decantare nella mente. O così, almeno, è ciò che è accaduto a me.
Criticare (risalendo all’etimo del greco antico krino, cioè giudicare in modo neutrale) Parthenope, impone a chi si cimenta nel farlo di applicare alla pellicola il principio kantiano, e di partire non tanto dalla cosa in sé quanto piuttosto dal tipo di lenti che si sono indossate nel vederlo. Parthenope, l’oggetto, non può essere visto (e dunque discusso) se non in stretto rapporto con il soggetto che l’ha contemplato. E nulla è più suscettibile di interpretazione quanto il mito. Anzi, il primo interpretante di un mito è un altro mito, o perché ne sviluppa alcuni tratti o perché ne propone intrighi e protagonisti diversi, persino opposti.
Da Esiodo a Virgilio, passando per Omero e le Argonautiche orfiche, Parthenope è innanzitutto un mito. E Sorrentino attinge all’universo non sempre pacifico di questo mito, lo riattualizza, ne propone una versione allegorica 一 a «bassa intensità», secondo la definizione di Peppino Ortoleva 一 e la proietta in modo multiforme sulle storie, uniche e singolari, di ciascun spettatore. L’interpretazione è volutamente aperta, non senza rischi, creativa e libera.
È consolidata, nella regia di Sorrentino, la prassi di togliere potenza sacrale al mito, intensificando l’esperienza quotidiana del vivere, la quale viene scomposta e ricomposta, in un doppio movimento, perennemente irrisolto, che dà al nucleo più invisibile della narrazione una traccia più antropocentrica che non desiderosa di riti, ma comunque famelica di stimoli immaginativi. Proprio questa tensione «da un lato spinge il pubblico a muoversi nel mondo della bassa intensità con leggerezza, come fra passatempi e oggetti di consumo che non richiedono impegno, dall’altro lo spinge a cercarvi, comunque, un ponte che connetta la propria esperienza con gli enigmi che continuano anche oggi a chiedere, e a non trovare risposte» (cfr. P. ORTOLEVA, Miti a bassa intensità, Einaudi, Torino 2019).
Nessuna interpretazione della Parthenope sorrentiniana può essere considerata la più profonda o la più vera: è in virtù della individuale interpretazione che significato, funzione e valore non sono mai definitivi ed esaurienti. Perché «la verità è indicibile». Dell’intero, ciascuno non può non contemplarne che pochi particolari frammenti, quelli che risuonano maggiormente col proprio vissuto esperienziale. Le suggestioni che arrivano vanno tutte raccolte in modo non oppositivo ma articolato entro un quadro che risulta “non finito”.
Al centro c’è la città di Napoli ma soprattutto un’eroina. Sorrentino opera un ontogenesi esistenziale di questa donna, Parthenope, non priva di ellissi. Il punto, infatti, non è ricostruire il tempo e lo spazio secondo l’ordinaria scansione cronologica della vita, quanto piuttosto di smantellare, nell’intreccio degli eventi che lubrificano ogni vita, il severo e intransigente senno-di-poi con cui si è tentati di guardarla. L’astenersi dal giudizio dicotomico, soggetto a contraffazione, di questo possibile modo di osservare la vita significa accoglierla tutta così com’è, nelle sue abissali contraddizioni e nei suoi esasperati splendori. Nel suo ineffabile e indicibile dolore. Solo così si comincia a vedere, e infatti «è l’ultima cosa che si impara».
Prima c’è il lato conturbante e vitalistico del dionisiaco: la gioventù, gli amori fugaci, i bar sempre aperti, il desiderio, il piacere, il provare ancora e ancora. A sedurre, a inventare nuove vite nella stessa, ad entrare in contatto con energie vivaci, a sfidare il destino per dargli nuovi lineamenti. A capire che farsene e che posto dare alla bellezza, anche a quella più fisica. È l’epoca d’oro di ogni giovinezza.

Poi c’è il fallimento, la disillusione, la frustrazione, il dolore, gli ossimori, la solitudine amara, forse anche la disperazione. La perdita. Parthenope perde, si perde. Con un filo di voce confida al professor Marotta uno dei sentimenti più distruttivi e indicibili che una donna possa tollerare: «Mi sono perduta». Parthenope, perdendo il fratello perde anche i genitori, li cerca alle sue spalle per vivere assieme a loro il lutto e i sensi di colpa ma non trova nessuno. Voltando le spalle alla vita, i genitori voltano le spalle anche alla figlia che resta. Parthenope ritroverà se stessa per un istante nell’abbraccio del suo professore ー magistrale nell’interpretazione di Silvio Orlando ー, capace di restituirla al mondo facendo leva sulla passione di lei, quella per lo studio, provando così ー con una delicata ma efficace maieutica ー a restituirle, nel caos più totale, il senso del suo vivere. L’apollineo, finora latente ma mai soppresso, diventa domanda di un supplemento d’anima che brama di vedere oltre, più che di conoscere solo il qui e ora: «Che cosa è l’antropologia?».
Mi pare che la risposta più eloquente a questa domanda, più volte rivolta da Parthenope al suo professore non poteva che essere non tanto un discorso sull’uomo quanto il mostrarlo tutto intero, così com’è, «senza giudizio»: una combinazione riuscita di acqua e sale, a volte idropica (come nel figlio del professore, certamente fantastico nella sua rappresentazione anatomica), a volte dissacratoria (come nella scena di Tesorone, interpretato da uno straordinario Peppe Lanzetta) tanto da apparire blasfema. Comunque fragile.


Una fragilità talvolta esasperata nei tratti (come nella scena di sesso tra gli eredi delle due famiglie camorriste esperita sotto gli occhi di tutti) da risultare stomachevole alle coscienze più sensibili o politicamente corrette; irriverente per quelle più irretite e per quelle che negano, anzichè integrare, tutte le ombre (non solo la luce), di cui tutti, nessuno escluso, siamo albergatori. È legittimo che lo spettatore si domandi se il grottesco e l’iconoclastia di alcune scene potessero essere evitate; se fosse così necessario contrapporre in modo così feroce sacro e profano. Senza scomodare le ricerche di Durkheim, Otto ed Eliade, se è vero che la contrapposizione dei due termini abita in modo radicato il pensiero religioso rivelandone uno dei suoi aspetti più fondanti e significativi, è vero anche che non si può parlare del sacro senza fare riferimento anche al profano, sebbene questo urti il devozionismo di una consistente fetta di popolazione, soprattutto meridionale. Ritengo che non si possa accennare al mito senza fare alcun riferimento al simbolo e al rito. A conferma di questo, la fotografia di Sorrentino non delude mai.
Dal punto di vista visivo, il regista incornicia Napoli e la sua contraddittoria bellezza come un corpo nudo di femmina: ci mostra al microscopio le sue arterie nei vicoli popolati da fascino e degrado, accarezza la sua schiena a fior dell’acqua di mare, ci fornisce una mappa dei nei nei faraglioni e nelle isole che la circondano. La malinconica bellezza delle immagini è sublime e poetica seppur dal lato della narrativa la via retorica scelta spesso risulta ridondante, in alcuni punti quasi vuota con il solo vanto di tante belle parole.
Ci si affida sempre a frasi e risposte “ad effetto”. Forse perché tutto passa e si trasforma, anche ciò che in fondo «era già tutto previsto»? O forse perché alla fine della vita resterà solo l’ironia?
© Foto di Gianni Fiorito
©Testo di Elettra Ferrigno