Dio guardò la terra, ed ecco, essa era corrotta.
L’appuntamento sulla grande terrazza del mondo dato dalla scrittura sacra procede dal senso della vista da parte della divinità per incontrare il senso dell’udito dell’uomo. Il Signore si affacciò da quella terrazza e «vide»: «che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male» (cfr. Gn 6,5). La divinità pesò sulla stadera l’uomo, e, facendo scorrere il braccio lungo la scala graduata, si addolorò di constatare che ogni carne, nella sua vera natura, era più pesante della grazia che gli aveva predestinato e che gli permetteva di chiamare e di trasformare quella carne in figli suoi. Colui che non delude mai non è al riparo dalle delusioni d’amore. In un impeto tutto umano, la divinità schiuse il suo dolore in un sospiro e in un ripensamento. Come quello dell’amante che, davanti alle infedeltà dell’amato, impotente davanti ad una inviolabile libertà, se ne va piangendo e, collerico, ritratta: «Cancellerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato, e, con l’uomo, anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo perchè sono pentito di averli fatti» (cfr. Gn 6,7). E’ il tempo della de-creazione, della fluttuazione, perchè nel dondolio di onde melliflue possa essere premuto il tasto ‘reset’, che corregge prima e riavvia dopo.
«E Dio disse a Noè: “La fine d’ogni mortale è da me decisa, poiché la terra è per colpa loro piena di ingiustizie; ed io sono per far guasto di essi e della terra. Fatti un’arca di legno di cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti. […] Farai nell’arca un tetto, da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio, superiore. Ecco, io sto per mandare il diluvio, cioè le acque sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita; quanto è sulla terra perirà. Ma io con te stabilisco la mia alleanza. Entrerai nell’arca tu e con te i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. Di quanto vive, di ogni carne introdurrai nell’arca due di ogni specie […] per essere conservati in vita. Quanto a te prenditi ogni sorta di cibo da mangiare e fanne provvista: sarà di nutrimento per te e per loro”» (cfr. Gn 6, 13-21).
Scrive S.Ambrogio: «Cancellerò e non annichilirò. Egli scuote l’albero per farne cadere i fiori, ma non mette mano alla radice. Cancellerò dal libro della terra per iscrivere sul libro della vita».
La divinità scuote l’amato fin nella sua linfa vitale perchè l’amore ritorni in vita; il suo è un amore, infatti, che non si rassegna e fantastica una pagina bianca per riscrivere da capo quella storia. La creazione, che fino a poco tempo prima scintillava di bellezza e di armonia, ora era piena di corruzione, ‘ḥāmās’ in ebraico, termine che qualifica non solo la violenza tipica della guerra e dell’odio, ma anche quella dei ricchi e dei governanti che schiacciano e annientano il popolo. E’ la violenza che regna tra gli uomini a tutti i livelli, ha una valenza sociale e il potere di alterare il creato e le relazioni degli uomini tra di loro.
La scrittura sacra sconvolge la geografia almeno quanto le esistenze coinvolte. Di fronte alla consistenza delle parole in essa contenute si può meglio riconoscere la nostra friabilità. In scrittura sacra niente poggia sulla stabilità di certezze inesorabili e incontrovertibili. Rifugiarsi in un’opera è affidarsi ad un idolo, così il Dio unico scende a sgomberare il cantiere. Solo l’amore resta immutato e immutabile, e ciò insegna che l’unico riparo è la divinità, la salvezza è affidarsi al suo sbaraglio: «Noè eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece» (cfr. Gn 6, 22). Noè diventa depositario dei pensieri di Dio.
Quella sera il mondo s’interruppe, come un principio di sordità all’orecchio. Come succede a chi passa alla penombra da una forte luce. Si mischiò l’amore allo spavento, la risposta insieme alla domanda. Le cateratte del cielo si aprirono e fecero posto al diluvio. L’orizzonte aveva bordi acquosi che non si lasciavano accostare, le acque furono travolgenti sopra la terra. Diluvio e inondazione. La catastrofe è la regola dell’evoluzione: dal disordine alla fertilità, dal caos all’ordine si plasmano vite incredibili. Gli imbarcati non sapevano se sarebbero tornati sulla terra, né per quanto tempo un’arca sarebbe stata la loro unica dimora. Quaranta giorni e quaranta notti, o forse centocinquanta, chissà. Il cielo e il fuori potevano essere visti solo attraverso una piccola finestrella sul tetto dell’imbarcazione. Tutto era nuovo per loro mentre il fuori faceva acqua da tutte le parti. Seppero in quell’incertezza di essere ospiti della terra. La divinità aveva rotto le acque per aprire un guado, come una partoriente che dona al mondo una nuova vita. Una storia salpava al seguito di un uomo giusto, integro e obbediente come napoletani d’altro secolo: pe ‘terre assaie luntane”. Sempre si sa come si parte ma mai come e se si ritorna, quando uno dice si al santo viaggio.
Anche noi siamo stati richiamati da un comando e da un hashtag -#iorestoacasa- a portarci in salvo dentro un’arca, tēbâ in ebraico, ‘cesta’. La stessa nella quale la madre depose Mosè perchè si salvasse. Tebà per dire cuore, che è cesta accogliente, custodia speciale della vita, luogo di comunione. L’avvertimento di un imminente diluvio ci ha imposto un altro ritmo, altre abitudini scandiscono una velocità di crociera che ha rallentato ogni cosa, dentro e fuori di noi. L’economia nazionale e quella domestica, l’andare, il dialogare, perfino il respirare. Senza poterlo pienamente comprendere o accettare interamente, stiamo traghettando il nucleo essenziale dell’umanità e dei viventi al di là di un cataclisma, di cui il Coronavirus è solo la punta dell’iceberg. Millenni di sapienza raccolti e disponibili ovunque, in rete, su YouTube. Milioni di autori, di eventi storici, di avventure e tragedie umane di ogni tipo: tutto questo ci è dato di conoscere. E noi, distratti come pazzi da un pazzo sistema, crediamo pure che una cosa simile sia solo un caso? Come Noè ciascuno di noi in questo momento è chiamato ad essere custode integrale della vita nel suo seme perché non si estingua. Ogni vita creata da Dio è degna di essere messa in salvo, e di queste la più bisognosa di salvezza è la famiglia degli uomini. Ciascuno, dentro la propria arca, è co-creatore di un cielo terso, di una terra salubre, di un mondo nuovo. Potevamo accorgercene solo così: cullando quella cesta nelle notti di paura, sussurrando agli intrecci di vimini delle sue desolazioni che l’amore è più forte della morte. Che l’immersione nell’acqua, come un (nuovo) Battesimo, è passaggio potente per purificare e ripulire le parti infettate dalla malattia della disobbedienza, del delirio di onnipotenza, dell’ombra di morte. Per riuscire a distinguere: un diamante da un pezzo di vetro, ciò che conta e ciò che ci rende numero, quel che passa e chi o cosa è destinato a restare. Siamo tutti Noè: tutti sulla stessa arca! Ora tutto il pianeta ha la forma di una stanza, di un’arca, di una cesta. «E’ il tempo che il sasso acconsenta a fiorire, che l’ansia abbia un cuore che batte, è tempo che sia tempo» (Paul Celan su POESIA n.102). E’ il tempo del Risveglio.
«Finché durerà la terra,
seme e mèsse,
freddo e caldo,
estate e inverno
giorno e notte
non cesseranno» (cfr. Gn 8, 22)
Poi la bonaccia sul mare: «Dio fece passare un vento sulla terra e le acque si abbassarono. Nel decimo mese, nel primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti» (cfr. Gn 8,1; 5). Un corvo che se ne va, la fogliuzza che non tremola più, il vapore che sale dritto dalle narici dei bufali, i loro occhi tranquilli: anche per gli animali era tutto finito. La cessazione: un suono secco di frutto caduto, il palmo di una mano che si chiude nel palmo dell’altra, il ritorno di una colomba bianca con un ramoscello di ulivo nel becco, dopo essere andata raminga per le acque del diluvio e per le aure delle ansie amorose, senza appigli cui posare le sue zampe. L’anima ritorna felice al petto del suo amato a ricordare che misericordia e pace, certo, si baceranno (cfr. Sal 84).
Si può fare, si può tornare indietro e riparare. L’acqua sa perdonare, è una maestra allegra. Il cielo sopra il mondo smette di esplodere e fa posto ad un arcobaleno, un precipizio di grazia che si tende lì, da parte a parte, sulle nubi che abbracciano la madre terra e i suoi abitanti. Le braccia da cantiere che avevano costruito l’arca, appena fuori, trovarono la più alta applicazione nella costruzione di un altare, che recava inciso il grazie, unico olocausto gradito alla divinità quando l’uomo ne riconosce il primato e l’opera di salvezza: «Il Signore ne odorò il profumo gradito». Quelle braccia vengono dall’ordine divino di ripopolare la terra, sono il mondo numero due.
«E Dio disse:
“Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me e voi
e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perchè sia il segno dell’alleanza tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi.
L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna
tra Dio e ogni essere
che vive in ogni carne che è sulla terra”»(cfr. Gn 9,22).
Dire fa avvenire le cose, è premessa obbligata del fare. E disse: con questo verbo la divinità crea e disfa, benedice, annulla, ricrea. Fa cieli nuovi e terre nuove, il suo dire contiene la novità dentro ad ogni cosa. Pittore è Dio, che dipinge un arcobaleno nel cielo per rammentare a se stesso, prima che all’uomo, un amore a prima vista che la creazione primordiale aveva fatto scoccare e che l’aveva innamorato follemente e irreversibilmente. Berît è l’allenza che fa seguire all’arcobaleno: un impegno incondizionato, un amore gratuito dichiarato a colpi di colori pastello nel cielo. Una raggiera di fasci luminosi per abbracciare in un colpo solo tutti, l’universo creato e quello di ogni uomo sono la sua eredità. Ecco l’arcobaleno, arco teso sulle nubi pronto a farci scagliare nuove frecce di speranza nel cielo terso e ripulito della nostra condizione umana. Quello spettro, che irradia allegrezza, si è ampliato fino a noi. Il suo fremito è una cupola che copre l’inclinazione al male fin dall’adolescenza del cuore umano, e oggi incita i bambini a disegnare arcobaleni, e i grandi con loro, e riempie ogni casa e i balconi in ogni strada.
Ora sappiamo che il bene è un filo invisibile, violentato e tenuto nascosto spesso nei diagrammi del giorno, confuso e svenduto a poco prezzo, un rovesciarsi attorcigliato di vite in un vicolo poco frequentato.
“Andrà tutto bene” (all shall will be well), disse la voce del Signore e che trovò accoglienza nel cuore di Giuliana di Norwirch, una mistica inglese del ’300, quando la Chiesa era lacerata dalla sofferenza durante lo scisma e il ritorno del Papa da Avignone a Roma.
Ora è anche il leit motiv di questi giorni, che affonda le radici nei racconti della scrittura sacra e nella speranza cristiana. E’ il motto non di chi si illude che tutto tornerà come prima, ma di chi sta integrando la sofferenza e sta rinnovando la sua fede sconfiggendo sordità e cecità per aprirsi alla consolazione.
“Andrà tutto bene” è frase di chi ha in mente un mondo nuovo. E lo farà.
Testo di Elettra Ferrigno © Foto dal web
Bellissimo ❤️