Specchio riflesso! Fisionomia del conflitto tra tragedia antica e psicologia contemporanea. Da Eschilo a Bronfenbrenner.

L’innocente è il più pericoloso. L’innocente ha la rabbia più grande, e in una relazione è quello che agisce nel modo più distruttivo. Dal momento che si sente dalla parte della ragione, perde il senso della misura. Il colpevole è molto più disponibile a cedere. La riconciliazione di solito fallisce non a causa del colpevole bensì dell’innocente.

Bert Hellinger

Quando ero bambina, era abitudine consolidata tra i miei pari intrecciare le mani e rivolgerle verso l’altro urlando “Specchio riflesso!” se questi ci avesse arrecato un qualche tipo di ingiuria. In quel gesto, che faceva da scudo, si condensava il potere magico di far ricadere sul mittente, rimbalzandola, l’invettiva a noi destinata. Quel gesto, diventato rito, forse affonda le sue radici in qualcosa di più sapienziale che non un semplice “gioco da ragazzi”.

Nella tragedia “I sette contro Tebe” Eschilo ci fa dono di una sfumatura che, se colta, può illuminarci sulle dinamiche che si scatenano durante un conflitto con qualcuno e lo scontro diventa così aspro che guardando l’altra persona ci viene da esclamare «Non ti riconosco più, non so più chi sei!», chiudendo quella relazione in modo definitivo e uccidendo nel proprio cuore quella persona. C’è un motivo per cui questo accade ed Eschilo ce lo fa capire utilizzando un oggetto: uno scudo dipinto. Siamo a Tebe, chiusi all’interno delle Mura. La città è sotto assedio ed Eteocle, il re, sta annunciando al popolo che finalmente è arrivato il momento dell’ultima battaglia, quella che decreterà il destino di Tebe e tutti, giovani e meno giovani, dovranno combattere. Ma perché Tebe è sotto attacco? Bisogna risalire la china del tempo e addebitare la causa ad una maledizione che dura da tre generazioni e cioè da quando Apollo aveva fatto una profezia a Laio, il nonno di Eteocle. La profezia annunciava che se Laio fosse morto senza figli, Tebe sarebbe stata salva. Ma Laio non aveva dato ascolto all’oracolo e aveva avuto lo stesso un figlio, Edipo, il quale l’aveva ucciso. Così la profezia aveva colpito la prima volta. Poi Edipo si era unito in matrimonio alla sua stessa madre, Giocasta, la regina di Tebe, e aveva avuto quattro figli con lei: due maschi ー Eteocle e Polinice, e due femmine ー Antigone e Ismene. Dopo l’incesto, Edipo si era cavato gli occhi e sua madre si era impiccata. Così la profezia aveva colpito la seconda volta. Eteocle e Polinice si accordano per regnare sulla città di Tebe alternandosi un anno ciascuno ma Eteocle, allo scadere del proprio anno, non vuole lasciare il regno al fratello Polinice che così dichiara guerra alla sua città, alla sua patria, a suo fratello. Polinice ha un nome che deriva da “πολυνείκης, poluneikes” che significa ‘litigioso’ e che già ci fa presagire il peggio.

E infatti sopraggiunge un messaggero a informare su ciò che sta succedendo fuori dalle mura di Tebe: i guerrieri di Polinice hanno appena evocato le potenze infernali, hanno sgozzato un toro, hanno raccolto il suo sangue in uno scudo rovesciato e vi hanno immerso le mani evocando Ares, il dio della guerra. Poi hanno giurato di radere al suolo Tebe o di morire provandoci e infine si sono tagliati una ciocca di capelli ciascuno, hanno chiamato a sé i morti e si sono legati al loro spirito. Le parole del messaggero terrorizzano le ragazze di Tebe che si disperano e iniziano a pregare tutti gli dei: Ares, Atena, Artemide e Apollo; invocano tutti, uno per uno, ed Eteocle le ferma, dice loro di smetterla di pregare gli dei come se pregare fosse la loro unica possibilità. Egli sta facendo di tutto per infondere coraggio al popolo e non può permettersi che si diffonda la paura perché lo sa che è contagiosa. E a proposito di paura, i soldati di Polinice sono determinati a farne parecchia. Il messaggero, proseguendo nel racconto, informa che essi non solo hanno invocato le potenze infernali ma che hanno anche deciso di attaccare Tebe da tutti i lati: sette guerrieri scelti sono pronti ad attaccare le sette porte della città. Questi guerrieri hanno degli scudi decorati e occuperanno le prime cinque porte. Lo scudo del primo guerriero ha dipinta sopra la notte stellata perché la notte cadrà sugli occhi dei suoi nemici; lo scudo del secondo guerriero ha un uomo che porta una fiaccola per bruciare la città; quello del terzo guerriero ha un uomo che sale su una scala per scavalcare le mura e portare Tebe alla rovina; quello del quarto guerriero ha il titano tifone che sputa fuoco ma il peggiore è il quinto guerriero, un giovane di nome Partenopeo che ha dipinta sullo scudo la Sfinge, il mostro che aveva perseguitato Tebe anni prima divorando vivi i suoi abitanti. Questo è un colpo basso perché uno scudo del genere evoca ricordi orrendi per i tebani. Dipingere gli scudi per i Greci era una tradizione che qui Eschilo enfatizza perché vuole sviscerare un meccanismo psicologico degno della nostra attenzione. Lo scudo dei guerrieri, infatti, aveva due funzioni: una protettiva, di corazza, l’altra invece aggressiva con l’obiettivo di terrorizzare il nemico nascondendo l’umanità e la debolezza del combattente. Se dunque per un verso lo scudo protegge, dall’altra aumenta il pericolo perché, nell’atto di proteggersi, si svela al nemico che si è in difficoltà e quindi si ammette la propria debolezza. Così, per distrarre dalla propria debolezza, Polinice fa dipingere sullo scudo di uno dei suoi combattenti la Sfinge, il mostro che aveva devastato la città del nemico, il quale non vedrà più la debolezza del suo nemico ma la sua. Eschilo vuole farci comprendere che lo scudo non è solo uno scudo ma qualcosa di più: una maschera che nasconde la debolezza sotto l’aggressività. E la chiave di lettura sta proprio qui: durante il conflitto si usa lo scudo pensando di proteggersi dal nemico perché lui è aggressivo ed è necessario mascherare la propria debolezza al suo cospetto; dall’altra parte, il nemico vede lo scudo con la maschera e pensa che deve proteggere la sua debolezza dall’aggressività dell’altro. Questo meccanismo che Eschilo ci mostra utilizzando il simbolo dello scudo, è stato studiato anche da Urie Bronfenbrenner e da molti altri psicologi e si chiama “Percezione dell’immagine allo specchio”: se i due nemici si guardassero, si rivedrebbero l’uno nell’altro come in uno specchio ma non lo fanno perché lo scudo, la maschera, impedisce loro di guardarsi reciprocamente. Ecco cosa accade durante un conflitto fra due persone, quando oltre alla collera sopraggiunge quella sensazione destabilizzante di non sapere più chi si ha di fronte. La persona diventa irriconoscibile perché scompare dietro a ciò che ha dipinto sul suo scudo. Eteocle non vede Partenopeo, vede la Sfinge. 

Alla settima e ultima porta si è schierato Polinice il quale urla che vorrebbe battersi con il fratello augurandosi di morire accanto a lui dopo averlo ucciso. Sul suo scudo è disegnata Dike, la dea della giustizia. Anche in questa immagine possiamo leggere un simbolo perché quando si litiga con qualcuno si pensa sempre di essere nel giusto e non può sorprenderci che Polinice abbia la dea della giustizia sul suo scudo, come non può certo sorprenderci che Eteocle pensi che Dike non stia dalla parte del fratello ma dalla sua. Sono identici, un’immagine allo specchio: come Polinice ha deciso di uccidere Eteocle, così Eteocle ha deciso di uccidere Polinice. Uno contro l’altro, capo contro capo, nemico contro nemico, fratello contro fratello. Fratello che uccide il fratello, così nessuno di loro avrà eredi e la loro stirpe morirà con loro. D’altra parte Apollo aveva avvisato il re Laio  ー «Salverai la città se morirai senza figli» ー ma lui non aveva ascoltato e ora i suoi discendenti stanno distruggendo Tebe. La stirpe che non avrebbe mai dovuto nascere deve morire. Eteocle e Polinice muoiono, l’uno accanto all’altro. Non ci sono vincitori né vinti. I tebani piangono. Piangono per il sollievo della salvezza e insieme per il dolore della perdita. Il loro è un pianto che racchiude tutta la complessità delle emozioni umane. 

In un tempo come il nostro, in cui il mito e la tragedia continuano ad essere ampiamente interpretati nonostante l’illusione di averli definitivamente soppressi, è bene usare le parole di Ricoeur: «il mito dà a pensare». A buon intenditor, le sue ermeneutiche…  

Testo di Elettra Ferrigno

Foto di copertina: Laura Williams ©

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