“(Se) questo è un amore”. Il testo di Giovanni Truppi tra filosofia e antropologia.

L’altro che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l’Unico, l’immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità del mio desiderio.

R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso

La canzone presentata alla scorsa edizione del Festival di Sanremo dal cantautore napoletano Giovanni Truppi, intitolata “Tuo padre, mia madre, Lucia” fa cadere il falso manto che è stato appoggiato sulle spalle dell’amore e fa discendere nel più profondo umore del sentimento grande. Il testo appare come una sorta di monologo che lascia ampio spazio ad alcune considerazioni riguardo all’amore tenace e al coraggio di sopportare quel che si vede senza distogliere lo sguardo. Le domande poste all’inizio del testo sembrano costeggiare il bordo di un abisso senza mai precipitarvi dentro perché rimangono a mezz’aria tra lo stralunato e l’empirico; è in questo modo che tutto diventa dialogo e si apre alla relazione. Di un io con tu. E le teste cominciano a brillare e le stelle a scintillare. Il filosofo Buber ci ha insegnato che non può esserci vera relazione, vera realtà e vera vita se non tramite l’autentico impegno di persone che in modo individuale e responsabile cercano l’incontro con l’altro. Eppure oggi siamo esposti al “disamore”: viviamo storie e drammi che non hanno una trama dalla struttura chiara, alcuni rapporti scemano o evaporano prima o poco dopo il loro inizio vero e proprio, mentre altri muoiono di morti lente e incomprensibili. Dimostra la sociologa Eva Illouz come l’incertezza emotiva nel campo dell’amore e delle relazioni è il diretto effetto sociologico dei modi in cui al mercato, al settore della psicoterapia e alla tecnologia, è stata assemblata e integrata l’ideologia della scelta individuale, oggi la principale struttura che governa la libertà personale. Insomma, il capitalismo favorisce l’individualismo che, minacciato nella sua libertà, sfalda ogni legame e annienta l’autentica apertura dell’io al tu. 

Mi è parso chiaro dal primo ascolto che il testo di Giovanni Truppi potesse essere programmatico nel passaggio da questo disamore al ripristino dell’amore, nonostante di esso nel testo non se ne dia mai definizione. 

«E quando le cose tra di noi non vanno lisce e sono malinconico o preoccupato ripenso a quel momento e mi fido di lui».

Capita che le cose non vadano lisce. Perché le cose vanno bene sempre solo nelle favole. Quando le cose vanno male – e ciò non solo possibile è ma auspicabile che accada -, quando tutto è incerto e diventa pasto per l’oblio e le passioni tristi, come la malinconia e la preoccupazione, l’autore dice «ripenso a quel momento e mi fido di lui». È la cura prima di ogni crisi: ritornare all’incontro originario. Ripensare a quel momento è l’unico modo per ridare gambe scattanti alla fiducia. Per ogni crisi e soprattutto per quelle che riguardano l’aspetto relazionale in tutta la sua multiforme ricchezza e in tutte le sfaccettature dell’unica vocazione, bisogna ri-volgersi, tornare indietro. Bisogna fare memoria, ricordare: ripassare dalle parti del cuore. Stare con lo stupore delle origini, svincolarsi dall’oscurità per porsi sotto la luce fulminea, accesa e restituita, dell’incontro. Sfidando a viso scoperto anche la «paura di metterci a letto» – la paura dell’intimità, di quella nudità non corporale ma animica -, contro-manipolandola con un 1% di puro, forte e incondizionato amore. Il resto è «stringere i denti», non per voluttuoso masochismo quanto piuttosto per la cura e la custodia di quel tesoro prezioso che è «quello che vogliamo fare noi»: chi ama fa progetti, si protende verso il futuro intrecciando la propria esistenza a quella di un altro dentro un orizzonte di progettualità. Questo progettare, questo sperare contro ogni speranza diventa scudo per tutte le voci interne ed esterne (quella del padre, della madre, di Lucia) che insinuano nell’intimo costantemente il dubbio e ci domandano «se questo è un amore».  

Il climax poetico del testo raggiunge il suo apice con il verbo credere.

Cosa significa credere? Vi è un credere relegato al grado dell’opinio alla maniera di Kant, che poneva alla base del conoscere la domanda «Che cosa posso sapere?». Si tratta qui di una conoscenza deficitaria, insufficiente che, a proposito di una tal cosa, fa rispondere: «Credo sia così». Vi è ancora un credere che traccia l’orientamento che dà senso all’esistenza mediante valori e ideali ai quali si aderisce con la propria vita e le proprie scelte. In ultima istanza vi è un credere che coinvolge tutta quanta la persona. Così il verbo credere diventa sinonimo del verbo amare (confido in te, mi fido di te) come atto di proesistenza, ovvero di un io che si affida ad un tu, mettendogli in mano la propria vita, assumendosi deliberatamente il rischio di poter essere ferito, deluso, annientato. «La proesistenza è dedizione e generosità, spirito di sacrificio, rinuncia di se stessi; è dare la precedenza all’altro; è preoccuparsi dell’altro più che di se stessi» (G.B. Mondin, Ontologia e metafisica, p. 294). 

«Amarti è credere che»

Questo è dunque un credere che ha a che fare con la fede. Una “fede”, infatti, è presente in tutti i rapporti umani: essa rassomiglia a quanto avviene nel conoscere la cosa più degna di essere conosciuta in questo mondo: un’altra persona. Poichè ogni uomo vive di relazioni, nessun uomo è estraneo alla fede, come notava già Scheler: «Ogni uomo ha necessariamente “un oggetto di fede” e ogni uomo compie l’atto della fede». La fede intesa in senso interpersonale appartiene all’essenza dell’uomo. Si tratta di una forma elementare e fondamentale del credere, in cui si svela innanzitutto che l’attuazione dell’esistenza è un intreccio multicolore di relazioni.

«che quello che sarò, sarà con te»

Il cantautore non dice “quello che avrò, né quello che farò”. Dice “sarò”, mettendo in gioco tutta intera la sua essenza di uomo finito e infinito insieme che, nel verbo coniugato al futuro, propone all’oggetto di questa promessa il rinnovo costante di un’alleanza che anticipa la risposta e diventa fondativa e costitutiva della relazione.

«Io ti volevo dire che la mia anima ti vuole ed il mio cuore pure», incalza il testo. 

Non bastava solo l’anima? O solo il cuore? Il cuore è la sede dei sentimenti e delle volontà, delle decisioni e delle passioni. L’anima è la sede del trascendente, della vita che, iniziata, scorrerà perennemente. Anima e cuore sono le architravi che sostengono gli slanci dell’amore e permettono di viverlo e di incarnarlo, e nel tempo e nell’eternità. 

«Amore mio, per vivere facciamo mille cose stupide, lo sai, per sopravvivere, semplifichiamo il più possibile»

«Ma cosa c’è di semplice?»

Questa domanda, alla fine del testo, è il grido di chi conosce la pesantezza, il dramma delle cose e anche quanta luce contengono. È il grido di chi vive di poesia e percussione e canto. Truppi sembra sorridere, a questo punto, di un sorriso sornione, mentre rivendica la non-semplicità delle relazioni, soprattutto quelle che osano definirsi autentiche e amorose. Il testo della canzone finisce con «Amore mio, che ridere», perchè a ridere – così come ad alleggerire, a sdrammatizzare – si impara. Sottrarre terreno alla disperazione ha l’effetto di prendere il cuore e di lavarlo. Solo così ritorna leale. 

Nel mito, Amore vuole amare Psiche e farlo al buio, senza volerlo contenere, possedere, de-finire. Nell’atto di amare, non nel capire, egli coglie il proprio senso nel mondo.

Mi sembra che quel ‘se’ posto all’inizio del titolo della canzone, definisca quello che dell’amore è impossibile dire, è impossibile definire. Questo che canta Truppi, questo – senza se – è un amore.    

Testo e illustrazione di Elettra Ferrigno ©

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