Sid. Padri di vetro, figli di fuoco

Sid è un cercatore di senso, un mendicante di amore — «Volevo solo essere amato», dichiara senza troppi orpelli sin dalle prime battute. È un ragazzo che si affaccia all’età adulta, bevendo la vita dalla coppa velenosa del mondo occidentale e occidentalizzato. Sid è figlio di. Di una madre che fa la madre e cucina cous cous. Di un padre che della paternità conserva solo la parte repressiva e disciplinare legata ad una morale e ad un credo.

Sid è figlio di stranieri ma è nato in Italia e vive ai bordi di periferia. Quale periferia? A diventare periferia oggi non è il perimetro geograficamente determinato di un luogo ma la persona, abitante, non per scelta, di una porzione di mondo universalmente ostica, pregiudiziale, nella quale domina la “cultura dello scarto” e la “globalizzazione dell’indifferenza”: l’uomo è guardato solo in termini di produttività e di efficienza e non nella sua (in)finitezza.

La geografia esistenziale di Sid si espande a partire dalla brama e dal bisogno ontologico dell’essere umano di compiersi, di affermarsi: lui voleva diventare qualcuno nello star system, quello spazio impalpabile che ha come unica legge quella del godimento immediato senza limiti e senza ostacoli. Sid è erede diretto di quella che, anzitempo, Pasolini definì «la società dei consumi» la quale non ammette «né anima, né cuore», al massimo una connessione wifi. 

Sid voleva fare l’attore con tutto se stesso e anima e cuore voleva metterceli. Egli voleva spostarsi dalla sua periferia esistenziale – dove era stato relegato – al suo centro interiore, per saziare finalmente quella fame di riscatto e per diventare protagonista nel palcoscenico della sua vita. 

Voleva. Perché non ha incontrato profeti o li ha smarriti lungo la via — «Non ci sono più i profeti!», urla.

E chi sono i profeti? Non certo anticipatori di futuro e nemmeno indovini; semmai uomini e donne capaci di intravedere nel presente una porzione di futuro da distillare sapientemente nelle ampolle del qui e ora per incoraggiare ogni vita pellegrina e straniera a non smettere di guardare lontano, a confidare nei propri sogni soprattutto quando il mondo, con la banalità del suo male, promette vite riuscite a buon mercato ma anche a buon rendere. Quello stesso mondo che se da un lato celebra e finanzia la cultura, dall’altro la fa vivere al singolo quasi alla stregua di una colpa — «Avrei voluto essere ignorante come mio padre», esclama, ad un tratto, Sid. Perché non ha avuto padri. Di padri, anzi, di assenza di padri è imbevuto tutto il suo monologo, dall’inizio alla fine. Ecco in scena la vita di un giovane uomo che si lascia interpellare: dalla domanda, quando si è vulnerabili e poco equipaggiati, si viene sovrastati. «Dove caxxo sono i padri?» – chiede Sid ad un interlocutore dai mille volti, nei quali nessuno riesce più a rintracciare la fisionomia del volto di Dio e che, per convenzione, abbiamo chiamato società, o politica, o famiglia o pubblico. Comunque massa indistinta. L’evaporazione del padre di lacaniana memoria è paradossalmente afferrabile nella ricerca madida e frustrante della propria e autentica identità. È il destino di Sid. Forgiato per una breve e intensa parentesi dall’incontro folgorante con un’insegnante di lettere che gli spalanca il lato bello del mondo sulla vertiginosa curva della letteratura, dell’arte, della bellezza. C’è padre ogni volta che incontriamo qualcuno o qualcosa – anche un libro, una poesia o Mozart – che ci aiuta a dare senso alla vita. Nel paradigma della complessità dentro al quale tutti oggi siamo irreversibimente immersi, agli insegnanti e alla dimensione collettiva sociale è chiesto di essere veri avventurieri della storia: chiamati, quasi sempre d’improvviso, ad entrare nelle vite dei loro alunni per decifrarle e trasmettere loro, più che nozioni, il desiderio. Desiderio che può essere trasmesso solo attraverso la testimonianza del desiderio presente in se stessi. Ciascuno ha il suo Eros che lo move, come fa col sole e l’altre stelle. Sid, fondendosi con la musica elettronica e il rumore della pioggia, consegna al destinatario delle sue parole un compito: ciascuno si faccia fattorino di desideri, motore in grado di accendere una passione per evitare che i giovani – questi nostri giovani – si distruggano, che «distruggano tutto». 

Tre fratture. L’innocenza perversa di uccidere. Cut – il taglio del padre su una hybris tipica della tarda adolescenza mai avvenuto in modo definitivo, il mistero insondabile della vita – così fragile, così potente – diventano voragini che risucchiano e che sembra impossibile richiudere. Esse trasformano, imbruttiscono, imbrutiscono. Diventano aria tetra e asfissiante dentro una shopper griffata.

Cosa in Sid e nel cuore di chi lo ha ascoltato per davvero non ha (ancora) trovato asilo?

© testo di Elettra Ferrigno

© ph. Marzia Benigna

𝗔𝗹𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗕𝗼𝘂𝗯𝗮𝗸𝗮𝗿 𝗠𝗮𝗹𝗮𝗻𝗰𝗵𝗶𝗻𝗼 in 𝗦𝗜𝗗 𝗳𝗶𝗻 𝗾𝘂𝗶 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗼 𝗯𝗲𝗻𝗲 – Spettacolo teatrale

Musica live e sound design: Ivan Bert e Max Magaldi

Regia e drammaturgia: Girolamo Lucania

Direzione tecnica: Sandro Vendrame 

Videoproiezioni: Niccolò Borgia

Produzione: Cubo Teatro

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