
Queste cose sono sotto i nostri occhi: l’angoscia delle nazioni, le potenze più salde che crollano, gli uomini che vengono meno per la paurosa attesa di ciò che potrebbe accadere al mondo. Qualche cosa di nuovo deve pur nascere da questa catastrofe senza precedenti. Mentre i crolli si fanno più profondi e più vaste le rovine, mentre più disperate si affermano le resistenze e più incommensurabili i lutti, aumenta, come sostegno inconsapevole dello stesso presente, il diritto alla novità. Viene da pensare che la stessa Provvidenza lavori in questo senso e ci conduca per una strada d’avvento, di vento alle suole, di avvenire (ancora) possibile. Di vero e di comune, in questo cercare di tutti, in questo protendersi di tutti verso qualche cosa che nessuno mai possiede definitivamente, risiede la dichiarazione di una comune indigenza. Dove siamo infelici, lì ci incontriamo e ci saldiamo come uomini. In questo spazio ci è data la possibilità di riconoscerci mortali, e dunque di diventare uomini. A poco o a nulla contano gli elementi rivoluzionari se la rivoluzione non è anzitutto un nascere di nuovo.
«Esco fuori da me,/dai miei occhi/mani, bocca,/esco fuori da/me, una schiera/di bontà e divino/che deve rimediare/alle malvagità/accadute»
scrive la poetessa Ingeborg Bachman. Più che di cose nuove il nostro mondo ha bisogno di uomini nuovi, che non siano modellati su esemplari meccanici e dietro suggerimenti di ideologie, nuove soltanto perché venute per ultime. C’è bisogno di uomini che intonino alla propria la preghiera di Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!», e nello stesso istante credano con ogni forza e con ogni fremito che Egli lo farà ancora una volta, una di più. Che lo sta già squarciando, il cielo, ed è prossimo ad una discesa…
Come avvenga il trapasso dal vecchio al nuovo in ciascuno di noi, non si può rispondere che con una parabola: «É come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati». La narrazione è tenuta salda da due imperativi: «Fate attenzione» e »Vegliate», ché il cambiamento non può avvenire dormendo. Fare attenzione è verbo di cura, manovra esperta di chi vuole dimostrare l’amore, più che raccontarne favelle. Vegliare è verbo di perseveranza, ha a che fare con il sottostare faticoso, e però fiducioso. Vegliare è decidere di prolungare la veglia nell’incedere incalzante del sonno; non è svegliarsi ma continuare a tenere gli occhi aperti. Ci è ordinato di prolungare il nostro essere svegli, vigili, attenti. E nessuno può continuare a vegliare se non ha una motivazione forte per farlo, presto o tardi si assopirà. Se l’attesa è la motivazione, allora l’Avvento è un’opportunità.
Molti si domandano che cosa si possa fare in quest’ora paurosa, ché il padrone è lontano e non si sa quando torna. Bobin risponderebbe: «Non aspettare niente, se non l’inatteso». Per capire che cosa sia il vegliare bisogna lasciare che il nostro essere argilla venga informato di ineffabile; e poi bisogna essere madri e padri, di qualcosa oltreché di qualcuno. Perchè c’è sempre qualcuno o qualche cosa in noi – un istinto, una ragione, una grazia – più forte di noi stessi. Tutti attendiamo: un figlio, un amico, un amore, una risposta, un senso. Alla vita, a questa vita, alla nostra vita. Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che che non si sa di preciso da dove vengano, ma che costituiscono la più sicura certezza, l’unica nel disorientamento generale. L’Avvento ha a che fare con l’arte del vivere, l’arte più grande: gioire dell’eterno prendendosi cura del quotidiano. Ogni attesa vera, infatti, richiama alla luce dall’abisso il mondo interiore, che si propaga nel quotidiano e dona la visione poetica alla vita perchè tiene desto il senso del mistero. Un anno civile finisce, un nuovo anno liturgico comincia; un grembo vergine è fecondo, Dio si fa uomo. Mistero…
L’avvento comincia laddove qualcuno desidera ardentemente di divenire un uomo nuovo. La primavera comincia col primo fiore, la notte con la prima stella, il fiume con la prima goccia d’acqua, l’amore col primo sogno.
Attendilo… Dio che viene – ed Egli certamente viene – è un sogno che bisogna fare ad occhi aperti!
Testo di Elettra Ferrigno ©
La foto in evidenza è presa dalla copertina dell’album “Immensità” di Andrea Laszlo De Simone. Per me l’Avvento ha questa musica.