
Nel perdurare di questa quarantena, i giorni si muovono secondo una curva che talvolta rassomiglia a quella delle montagne russe. La maggior parte delle persone accenna ad “alti e bassi”. Ci sono giorni positivi, ed altri estremamente faticosi. Alcune mattine ci si sveglia energici e propositivi, altre in cui la fatica la fa da padrone già dal suono della sveglia. Così come alcune chiamate, il giorno prima ti rallegrano e il giorno dopo ti lasciano un velo di tristezza nel cuore. Insomma, ci sono giorni in cui ci sembra di trascinare su per la montagna un masso enorme e, proprio quando si è convinti di avercela fatta, quel masso improvvisamente rotola di nuovo a valle. Tastando gli umori miei e di chi mi è vicino anche a distanza, mi è tornato caro alla memoria il mito greco di Sisifo.
La narrazione del mito greco di Sisifo è stata oggetto di numerose varianti, a seconda degli autori, ma il suo nucleo fondamentale è comune a tutte le tradizioni. A causa di una serie di affronti fatti agli dei, l’eroe greco Sisifo, fondatore di Corinto, viene condannato a scontare negli inferi l’eterna pena di spingere un enorme sasso in cima ad un colle, da dove esso rotolerà a valle costringendolo a ricominciare l’opera da capo, in un perenne rinnovarsi della condanna. Ripetizione eterna di un’attività del tutto inutile -da qui il detto è una fatica di Sisifo, per dire una fatica inutile-, la pena di Sisifo è stata considerata l’emblema dell’insensatezza e dell’assurdità della vita umana, divenendo così l’occasione per alcune riflessioni sulla possibilità per l’uomo di raggiungere la felicità.
Camus, scrittore e filosofo francese, esponente dell’esistenzialismo, ovvero di quella corrente di pensiero che proprio nella precarietà e nell’assurdità della vita umana individua la ragione paradossale del suo valore, in un’opera intitolata appunto Il mito di Sisifo, affronta il tema delle fatiche dello sfortunato eroe, dedito al suo eterno e assurdo compito.
Così scrive Camus:
Si è già capito che Sisifo è l’eroe assurdo, tanto per le sue passioni che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l’odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla a condurre a termine. E’ il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra. Nulla ci è detto su Sisifo all’inferno. I miti sono fatti perchè l’immaginazione li animi. Vi si vede soltanto lo sforzo di un corpo teso nel sollevare l’enorme pietra, farla rotolare e aiutarla a salire una china cento volte ricominciata; si vede il volto contratto, la gota appiccicata contro la pietra, il soccorso portato da una spalla, che riceve il peso della massa coperta di creta, da un piede che la rincalza, la ripresa fatta a forza di braccia, la sicurezza tutta umana di due mani piene di terra. Al termine estremo di questo lungo sforzo, la cui misura è data dallo spazio senza cielo e dal tempo senza profondità, la meta è raggiunta. Sisifo guarda allora, la pietra precipitare, in alcuni instanti, in quel mondo inferiore da cui bisognerà farla risalire verso la sommità. Egli ridiscende piano. E’ durante questo ritorno che Sisifo mi interessa. Se codesta discesa si fa, certi giorni, nel dolore, può farsi anche nella gioia. Immagino ancora Sisifo che ritorna verso il suo macigno e, all’inizio, il dolore è in lui. […] Ma le verità schiaccianti soccombono per il fatto che vengono conosciute. […]
Tutta la gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua. Parimenti, l’uomo assurdo, quando contempla il suo tormento, fa tacere tutti gli idoli. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino. Così persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera di vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.
A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani Milano 1984, pp. 118-121
Questo brano, che si inserisce in una cornice laica e atea, pone il focus sull’accettazione coraggiosa del proprio destino. L’uomo (o il Sisifo) di Camus ridiventa padrone della propria vita riconoscendone l’assurdità e accettandola incondizionatamente. Il senso dell’esistenza non può che essere ricercato dall’uomo nella sua solitudine: Sisifo è un eroe solo ed è un eroe tragico. La soluzione sta nel fatto che Sisifo trovi il senso di ciò che sta facendo non fuori di sé, ma dentro. Il Sisifo di Camus ci invita a riflettere sul fatto che la felicità non dipende dal cosa ma dal come, dalla disposizione interiore. Il senso della felicità risiede nel profondo di ciascuno di noi.
In questo giorno contemplo e medito, faccio spazio, nella mia storia, alla Passione dell’uomo-Dio, di un Dio-uomo. Di colui che ha trascinato un masso a forma di croce fin sulla montagna, e poi, al terzo giorno, una pietra è caduta a valle rotolando via e annunciando il senso profondo di cosa sia la felicità per coloro che credono. «La più grande delle risorse: la caduta. Tutto era pronto. Non c’era quasi più che lasciare che le cose andassero come devono andare. Tutto era pronto», scrive Péguy in Getsemani. Nelle continue cadute, nostre o di quel sasso che spingiamo e che poi rotola nuovamente giù, rotolano via: l’aceto mischiato al fiele, le vesti tirate a sorte, le scritte infami, le ingiurie, gli insulti, i sarcasmi, le burle degli eterni burloni, degli eterni spiritosi, degli eterni curiosi, dei passanti, dei perdigiorno, di tutti quelli che non hanno niente da fare; le beffe di cattivo gusto, le beffe pedanti, le beffe intellettuali, le beffe devote, le beffe perfide e velenose; i tradimenti, gli abbandoni, i rinnegamenti. Chi non ne ha vissuti? Chi non li ha fatti vivere ad altri, per proprio limite, meschinità o basso valore morale?
«Sia lode agli amori ricambiati, ma non sembri assurdo il gesto dell’amante che affida la sua vita nelle mani di chi lo tradirà, perchè non c’è altro mezzo, non si paga con altra merce che non sia la vita l’amore che si ha in corpo» (E. De Luca).
Oggi mi è data una risposta di senso al male fatto e ricevuto. Sta tutta nel guardare quell’Uomo-Dio, nel vivere intimamente la mia storia, così piena di cadute, nella sua. Sta scritto: Dopo il suo intimo tormento, vedrà la luce. Così è, nell’attesa di una pietra che rotoli. E che certamente rotolerà ancora, ancora e ancora…
Testo di Elettra Ferrigno © Foto dal web